[DivX-Ita Mp3] Scene da un matrimonio (1973, Bergman)

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[DivX-Ita Mp3] Scene da un matrimonio (1973, Bergman) (Size: 1.09 GB)
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Description





Scene da un matrimonio

Scener ur ett ätkenstap

di Ingmar Bergman - 1973



Rating IMDB: 8.4/10

Regia, Soggetto, Sceneggiatura: Ingmar Bergman; Cast: Liv Ullmann: Marianne - Erland Josephson: Johan - Bibi Andersson: Katarina - Jan Malmsjö: Peter - Gunnel Lindblom: Eva - Anita Wall: signora Palm - Barbro Hiort af Ornäs: signora Jacobi - Lena Bergman: Karin, bambinaia di Eva - Wenche Foss: madre - Rosanna Mariano: Eva (12 anni) - Bertil Norström: Arne - Anno: 1973 - Durata: 167' - Colore: colore (Eastmancolor) - Audio: sonoro (mono) - Ratio: 1,37:1 - Genere: drammatico - Produttore: Lars-Owe Carlberg - Casa di produzione: Cinematograph AB



La trama: Una coppia di sposi con due bambine è apparentemente felicissima, ma a poco a poco i due si accorgono di non comunicare più. Lui si fa un'amante, e marito e moglie divorziano. Più tardi, quando entrambi sono risposati, si rendono conto che è possibile iniziare un rapporto su basi nuove.

-> link alla scheda su wikipedia



Recensioni

È un Vivere insieme per una TV adulta e senza peli sulla lingua, concepito da Bergman in sei puntate per la Sveriges Radio TV 2. Vi si raccontano dieci anni del matrimonio di Marianne e Johan, vivisezionati al microscopio come tipici analfabeti dei sentimenti: «Per ciò che si riferisce a noi stessi e agli altri, siamo di un’ignoranza tremenda, sconfinata...» confessa Johan in uno dei grandi momenti di verità del film. Condizionata dall’eccessiva dipendenza dai rispettivi genitori e dai rituali della società borghese, scarsamente tonificata dalla presenza dei figli, frastornata dalle conflagrazioni degli egoismi, la coppia si dilacera attraverso scontri, infedeltà e pratiche di divorzio. Come conferma la lettura del copione integrale, pubblicato da Einaudi con il titolo Scene di vita coniugale, l’autore ha scelto volutamente la dimensione più didascalica per una serie di variazioni sul tema doloroso della Danza di morte di Strindberg: il rapporto di amore-odio nell’esistenza a due. Anche la tecnica è semplificata, una lezione di stile televisivo: primi piani, movimenti di macchina essenziali, niente musica, tutto affidato al dialogo e al virtuosismo psicoanalitico degli attori. Purtroppo è invalso l’uso di inzeppare i materiali delle serie televisive in specials cinematografici che di speciale non hanno proprio niente. Questo, in particolare, ammassa e taglia in maniera grossolana (è omesso, fra l’altro, il brano del procurato aborto di Marianne, cosi importante nei successivi sviluppi della vicenda coniugale); la pellicola a 16 millimetri è stata gonfiata a 35 con risultati tecnicamente scadenti e la fruizione dell’opera in quasi tre ore di proiezione non lascia spazio alla riflessione e alla discussione.

-- Da Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere







Grande inquisitore delle anime, il maestro svedese continua a darci i frutti delle lunghe esplorazioni compiute attraverso sei matrimoni e le sue infelicità. L’impegno di Bergman comincia ad avere qualcosa di turistico, ma è implacabile e meritorio: lo storico futuro avrà nei suoi film una delle più sapienti testimonianze di come nel secolo XX uomini e donne sentissero gli eterni interrogativi sull’amore e la sua usura, e come tentassero, nello smarrimento d’ogni certezza, di darsi provvisorie risposte. Anche di come la voluttà di frugarsi fosse dettata dal gusto di ferirsi, e di riempire con le parole il vuoto dei cuori. Giacché Scene da un matrimonio rappresenta, insieme ai supplizi dei corpi e degli spiriti, la tortura del verbo.

Protagonista è una coppia di sposi, Johan e Marianne, psicotecnico e avvocatessa, supposta il simbolo perfetto della felicità coniugale. Il film si apre appunto su una intervista che essi rilasciano sorridenti: tutto va bene, in casa, tutto è sempre filato liscio, da dieci anni, com’è bello amarsi. Per averne la riprova, ai due basta confrontarsi con una coppia di amici, Peter e Katanina, distrutta dal reciproco disprezzo. Invece anche fra Johan e Manianne serpeggia un veleno, che presto li intossicherà. Il primo sintomo ci è detto quando la donna tenta, senza riuscirvi, di sottrarsi a uno di quegli obblighi (la visita settimanale alla mamma) che la soffoca nel carcere delle convenzioni. Né è vero che Johan. ha piena confidenza con la moglie: certe sue poesie le ha fatte leggere a una compagna di lavoro. Neppure a letto, nonostante le molte moine, i due sono proprio felici: sia l’abitudine sia la tiepidezza di lei, qualcosa stride. Di qui piccoli litigi, e un che di precario e insicuro.

La crisi esplode quando Johan dichiara alla moglie d’essersi innamorato d’una giovane, Paola, e di voler subito lasciare la casa. È il momento dell’angoscia e del furore. L’uomo confessa che da quattro anni è stufo della famiglia, Marianne lo supplica di restare: «Parliamone insieme, scopriremo i nostri sbagli». Rivistisi dopo sei mesi per accordarsi sul divorzio, il desiderio li riaccosta, l’uno e l’altra insoddisfatti delle nuove esperienze: forse il divorzio non si farà. Un altro incontro, passato attraverso la dolcezza, ha invece un epilogo tempestoso. Ormai stanco di Paola, l’uomo batte a sangue la moglie, che paga nell’umiliazione l’assenta certezza di essersi liberata da ogni ricatto sentimentale. Il divorzio si fa, ma una segreta complicità, dove tenerezza e passione s’intrecciano, continuerà a legare la coppia. Quando, dopo sette anni, ormai ambedue con nuove famiglie, Johan e Marianne, divertiti e imbarazzati, tornano per una notte nella loro vecchia casa e poi si nascondono nel «cottage» di un amico, qualche specie di amore ancora li conforta. Sono nuovi e antichi, e la sicurezza sostentata dai Marianne s’incrina nell’incubo, ma si tengono stretti: le parole e i rimpianti cedono al calore, all’imperfezione di vivere si ripara con la reciproca pietà.

Scene da un matrimonio non è fra i più nuovi, e maggiori, film di Bergman. Pensato per la Tv, e quasi tutto girato in interni, con predominanza assoluta dei primi piani, ha la sua maggior forza di spettacolo nella saldezza della struttura narrativa e nell’interpretazione di due attori bravissimi, che per quasi tre ore reggono l’impresa. La sua debolezza deriva, rispetto a opere dove l’immagine domina sulla parola, da un eccesso di ricamo psicologico, da un andar perlustrando gli anfratti anche minimi a lume di candela, perché le zone di ombra prevalgano e accrescano il mistero. Specialista dei cunicoli esistenziali, Bergman ha capito da un pezzo che la vita è una lunga solitudine abitata dalla paura, e un inferno dove in due si brucia meglio. La sua ricerca di un ordine che razionalizzi l’assurdo è fallita da tempo, insieme a Dio. Di qui il compiacersi dell’impossibilità di capirsi sino in fondo e l’affidarsi al contatto della carne, al «Touch», secondo il titolo del film, in italiano L’adultera, con cui Scene da un matrimonio è strettamente imparentato. L’allargare l’analisi dagli assilli femminili a quelli della coppia comporta un affresco psico-sociale in cui si riassumono tutti i disagi della civiltà contemporanea, ma non aiuta a sciogliere i nodi, anzi li stringe. Ambizioso maestro d’anima, Bergman è tentato di addebitarli al conflitto fra il bisogno di libertà naturale e di autorità protettiva, ma le risorse drammatiche che al nipotino di Strindherg offre questo perenne confronto di brividi e orrori, di vitale e di funebre, minacciano di indurlo ad assaporare, mentre se n’accora, quello che chiama l’analfabetismo sentimentale. Ove imparassimo il cifrario dell’anima, addio poesia.

Non occorre dire che la microspia di Bergman capta crepe e sussulti del matrimonio, soprattutto negli angoli più ambigui, con esattezza estrema: il film è il frutto acutissimo di un voyeurismo cui nulla sfugge. Né ripetere l’elogio di Liv Ullmann e spendere lodi per tutti gli altri: l’espressività dei volti qui sventa il pericolo del teatro della chiacchiera. Ma occorre ricordare, fra le riserve, che nessuno sa sfogliare come Bergman l’atlante d’un caos che chiamano vita.

-- Giovanni Grazzini (Il Corriere della Sera), 19 aprile 1975







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